Un sindaco e una mappa per salvare Pompei

Riporto l’articolo di Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, apparso sul Corriere della Sera riguardo la situazione di Pompei.

Un affresco nella Villa dei Misteri (Zak/flickr)

Leggendo gli scheletriti elenchi di fatti chiamati storie — osservava Balzac — ci accorgiamo che gli scrittori di ogni tempo hanno dimenticato di restituire la storia degli usi e dei costumi privati, cioè dei moeurs. L’opera di Petronio, con la Cena di Trimalcione, spicca nel suo isolamento! Balzac scrisse La Comédie humaine per colmare questa lacuna che concedeva ai fatti semplici e costanti della vita privata la stessa importanza che gli storici davano agli avvenimenti pubblici. Per le civiltà sepolte spetta all’archeologo riempire questo vuoto, ma dove può volgere lo sguardo, oltre che a Petronio e alle notizie sparse degli antichi autori? In primo luogo a Pompei: la civiltà greca nulla ha di simile. Pompei fu scoperta nel 1748 e da allora i suoi scavi accompagnano la nostra vita, per cui alla storia antica della città — dal VI secolo a.C. fino al 79 d.C. — si aggiungono i 262 anni del nostro tempo. Finché fu protetta dai lapilli, Pompei era salva. Gli scavi l’hanno restituita crollata ma ricostruibile nei piani alti e ai piani terreni intatta. Quale messe per lo studio dei moeurs! Il disvelamento di questa antichità palpitante, diversa da quella sontuosa ma più rovinata di Roma, ha reso gli scavatori voraci, al punto da divorare con pala e piccone novantotto isolati. Divorare scavando presupporrebbe la digestione scientifica della materia ingurgitata, che purtroppo non è avvenuta, e poi naturalmente la tutela, anch’essa difettosa. Numerosi sono stati gli studi, che tuttavia non hanno rappresentato Pompei nel suo insieme.

Rimangono da scavare parti notevoli di alcune delle nove regioni in cui è stata suddivisa la città, che continuano per fortuna a covare la loro realtà incorrotta, ma grande parte di quanto è stato portato alla luce è rimasta senza tetto, per cui pioggia e sole consumano ogni giorno le rovine, come avviene a L’Aquila terremotata. La responsabilità che ha l’Italia riguardo a Pompei è colossale, perché si tratta di una realtà unica, culturalmente necessaria per il globo: oggi sono soprattutto stranieri e asiatici a visitarla. Ma il Paese non è stato all’altezza e la città antica vive in una emergenza perpetua, che ha giustificato l’intervento di un Commissario. Va aggiunto che si tratta di uno dei casi più complessi di tutela e di gestione che si possa immaginare. È possibile voltar pagina? Voltar pagina significa mettere al centro e risolvere in tempi brevi la questione conoscitiva. Senza conoscere Pompei, senza minuziosamente rilevarla anche negli elevati e scrutinarla scientificamente in maniera integrata e sistematica, ci si limiterà a imitare il passato. Solo un’analisi, casa per casa, può restituire il valore culturale di Pompei e dirci, al tempo stesso, quale muro è pericolante, quale affresco sta per cadere. Conoscendo questi dettagli e gerarchizzando gli interventi, è possibile varare finalmente una «manutenzione programmata», regione per regione, isolato per isolato, numero civico per numero civico, attuata da una squadra fissa da ultimo immaginata e da istituire: l’«Opera di Pompei»; e diventa anche possibile selezionare secondo ragione i restauri e le valorizzazioni da affrontare. Pompei non è solo degli studiosi, è dei visitatori! I dieci anni trascorsi, lavori del commissario compresi, servano per progettare cosa fare, fin da oggi, nei prossimi cinque-dieci anni. Poi sarà tardi. Un «sistema informativo territoriale» è stato creato dalla Soprintendenza, ma è inadeguato nei rilievi, è rimasto inutilizzato e da alcuni anni non viene aggiornato. Tutte le conoscenze e ogni intervento devono essere memorizzati in questo cervello, che va dotato di personale e di mezzi adeguati — i soldi a Pompei non mancano —, cervello che va posto al centro della tutela, della gestione e del cuore dei funzionari, perché solo lì si custodisce l’interesse generale immateriale della città. Pompei, oltre a tradursi lentamente in polvere e in alcuni punti a collassare, si trova in zona sismica: pochi anni prima dell’eruzione fu colpita gravemente da un terremoto e infine vi è stato quello del 1980. E se tornasse un cataclisma? Nelle condizioni attuali sarebbe la fine del sito, perché mancano gli studi e le documentazioni che potrebbero surrogare le perdite. La città infatti è in grande parte inedita, anche perché le pitture sono state studiate a parte, non come apparato decorativo fissato alle murature. Serve pertanto una campagna impegnativa, proceduralmente ordinata e sistematica di documentazione e di studio delle costruzioni, finanziata annualmente, onde ricavare, grazie ai rapporti stratigrafici tra le strutture, la storia di ciascun isolato, e rilevare perfettamente le unità costruttive, riattribuendo alle singole stanze gli oggetti mobili rinvenuti. Le parti conservate vanno riunite a quelle mentalmente da ricostruire, in una ricomposizione fra architetture, decorazioni e rinvenimenti. Bisognerebbe che dieci équipe nazionali e internazionali «digerissero» almeno dieci isolati l’anno. Avremmo allora una reduplicazione scientifica informatizzata che, comunicata puntualmente sul web, consentirebbe al mondo di entrare in tutte le case, le botteghe e gli edifici pubblici, come mai sarà possibile fare sul sito. Questa è anche la migliore assicurazione contro l’usura del tempo e il rischio sismico. Pompei sarebbe salva e per sempre, almeno dal punto di vista conoscitivo, narrativo e comunicativo. Ogni fondo dello stato destinato all’archeologia dell’area vesuviana deve essere speso per risolvere i suddetti problemi, non per ampliarli.

Si tratta anche di immaginare per Pompei forme organizzative adatte alle necessità dell’archeologia attuale e del nuovo pubblico, in cui gli archeologi collaborino con un manager cui va affidata la gestione: anche Pompei ha bisogno di un sindaco. Bisogna insomma fare squadra tra competenze diverse, al di sopra degli interessi corporativi, per il bene generale di questo dono del fato dovuto a una tragedia. La tutela deve restare nelle mani dei Soprintendenti.

Fonte: Corriere della Sera.

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